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Quanto si può voler bene!

Suona la sveglia.
È mercoledì ed è il mio giorno di volontariato in Humanitas.
Che cosa mi aspetterà oggi? Sono sempre abbastanza tesa prima di iniziare, ma quando entro in ospedale, tutta l’ansia svanisce e mi torna la voglia e lo spirito con cui ho iniziato questa avventura.

Entro nella sala operativa del Day Hospital Chirurgico.
Le infermiere della presala mi consegnano gli elenchi degli interventi. I pazienti sono ancora in accettazione e la sala è vuota.

Ecco il primo paziente. Mi consegna con titubanza la busta con i documenti e mi guarda con aria interrogativa ed un poco smarrita. Si comincia. Inizio le chiamate in ordine cronologico.
Li aiuto a prepararsi per l’intervento, cerco di dare coraggio, perché sono stata anch’io dalla altra parte della barricata e so quanto è terribile non sapere che cosa ti aspetta oltre quella porta.
Dal corridoio si sentono voci abbastanza alte in avvicinamento e dalla porta entra una carrozzina che a malapena riesce a contenere una donna enorme vestita di scuro. Il viso è senza espressione come se tutto ciò che le sta intorno non la riguardasse, non fosse lei la protagonista. La guardo bene: non è così anziana come poteva sembrare di primo acchito. Avrà più o meno la mia età.

Un ragazzo spinge la donna sulla carrozzina, mentre un altro, accompagnato da una giovane con un bambino in braccio, spinge un girello. Sicuramente fanno parte della stessa famiglia. Dai lineamenti capisco che è la madre di almeno due dei ragazzi che la stanno accompagnando. Le parlano con tenerezza anche se lei non dà segno di capire che cosa le stanno dicendo; tiene sempre gli occhi bassi come una persona rassegnata a tutto quello che la vita le ha dato e non cerca di reagire.

Uno di loro mi viene a consegnare i documenti per l’accettazione: dovrà fare un intervento sugli occhi abbastanza importante. Gentilmente dico loro che si devono accomodare e che quando sarà il turno della signora la chiamerò. Vedo dal foglio dell’accettazione che arrivano da Napoli. Un viaggio lungo con una persona in quelle condizioni.

Suona il telefono interno, mi viene comunicato chi devo far preparare. È il momento della signora, i ragazzi la sollevano dalla carrozzina e la fanno aggrappare al girello e lei, da loro sostenuta e strisciando i piedi, arriva. Come sempre, le chiedo se entra da sola e se vuole che poi l’aiuti io a cambiarsi o se desidera che qualcuno dei suoi famigliari vada con lei nel camerino. È il ragazzo più grande che si offre. Entra con lei nello spogliatoio e sento che la incoraggia e la stimola a compiere i gesti necessari per spogliarsi ed indossare il camice. Ad un certo punto mi chiama, perché non ce la fa da solo; allora do loro una mano e poi lui mi chiede una cosa che mi fa capire la tenerezza che ha verso la madre. «Signora, va anche lei con la mamma in sala operatoria? La mamma ha bisogno di dolcezza e da lei si lascia aiutare». Non gli dico che io non posso entrare, ma lo rassicuro che anche al di là di quella porta ci sono delle persone gentili che si prenderanno cura della sua mamma. Con riluttanza la lascia andare e, fino a che la porta non si chiude, la segue con gli occhi.

È una mattinata abbastanza pesante: ci sono parecchi interventi, diverse persone da aiutare e diversi parenti da tranquillizzare. Ogni volta che esco nella sala d’attesa, per dare notizie su qualche paziente già operato, vedo i sei occhi dei ragazzi che mi scrutano per vedere le mie reazioni. Di proposito evito di guardarli.

Le ore passano ed ormai è ora che arrivi il mio collega a darmi il cambio. Sento bussare alla porta dello studio, vado ad aprire ed è uno dei ragazzi che, abbastanza teso, mi chiede della madre: «Signora lei ha chiamato quasi tutti, ma dopo più di tre ore non ci dice niente di nostra madre!». È difficile far capire a un parente in attesa da tempo, che anch’io non so niente finché non viene l’infermiera a darmene comunicazione.

Il mio turno finisce, esco nella sala e saluto tutte le persone in attesa; il ragazzo si alza e sembra convinto che, se io vado via, lui non saprà mai nulla della madre. Gli dico: «Stia tranquillo: appena ci saranno notizie le verranno comunicate». Mi abbraccia e da quello capisco il dolore e l’ansia che ha dentro di sé. Dovrei essere ormai abituata a vedere l’agitazione e i visi tesi dei parenti quando non sanno nulla dei loro familiari, ma lo sguardo di quei tre ragazzi mi è rimasto impresso; l’amore per la mamma che, probabilmente, ormai non poteva dare più nulla a loro, era commovente. Anche a casa per un po’ ho pensato a quella mattinata e sono arrivata alla conclusione che per avere così tanto affetto attorno vuol dire che lei ne aveva dato tanto; e, anche se era invalida e assente, era pur sempre la loro mamma.

A cura di Daniela Ajelli, volontaria dal 2009